Come sarebbe la vita senza il "MITO DEL SACRIFICIO"?

Come sarebbe la vita senza il "MITO DEL SACRIFICIO"?

scritto da Michela Artuzzi (@psicologa.michela.artuzzi)

Mi succede spesso di chiedermi come sarebbe la vita senza obblighi temporali, senza il ticchettio fastidioso delle lancette di un orologio a scandire le nostre giornate e il susseguirsi dei giorni, mesi e anni.

A questa domanda fatico però a trovare una risposta perché ci siamo cresciuti con questa prospettiva dell’esaurire tutto e subito, del tagliare il traguardo prima degli altri, del dover “stare entro certi limiti” e del dover essere spesso non come vorremmo ma come gli altri vorrebbero che noi fossimo.

Strana e difficile affermazione, anche un po’ contorta me ne rendo conto ma, dal mio modo di vedere le cose, puramente veritiera.

 

Le tappe della crescita

Da molteplici studi presenti in letteratura riguardo allo sviluppo, oggi sappiamo che, per definire uno sviluppo tipico è importante raggiungere, entro certi limiti temporali, delle specifiche tappe evolutive che però non sono da considerarsi come dei confini estremamente rigidi e per nulla flessibili; “Mio figlio ha 11 mesi non cammina ma la figlia della mia amica va già spedita, cosa devo fare?”, “Mia figlia ha 9 mesi e lascia tutti i giochi in disordine”, “Ormai ha 1 anno, è grande per i capricci”.

Se queste affermazioni vi hanno fatto sorridere e allo stesso tempo vi hanno lasciato un po’ allibiti, sappiate che non siete gli unici, mi ci metto anche io, tra voi che siete sconcertati.

Il paragone con gli altri ci spinge, fin dalla più tenera età, ad una costante sfida sul piano del raggiungimento di obiettivi non solo di crescita ma anche estetici e performativi.

Se nell’età infantile il dilemma sta sul piano del raggiungimento, non rigido, delle tappe di sviluppo, (ricordando che, parlando di sviluppo tipico, ogni bambino è a sé e ha i propri tempi certamente rispettando alcuni range temporali oltre i quali si prefigura una situazione tale per cui è richiesto un approfondimento) con l’aumentare dell’età il focus si sposta sulla performance e sul modo in cui si appare agli occhi degli altri.

Il malcontento sorge, il più delle volte, dalle figure di riferimento (non è insolito che i genitori si prendano a parole, o peggio, sugli spalti durante una partita di calcio del figlio o che si faccia a gara, sempre tra i più grandi, a chi ha il body con più brillantini al saggio di danza della figlia); crescere sotto al costante paragone con gli altri ci porta, con il tempo, a non vederci più in modo autentico ovvero così come siamo ma sempre alla ricerca degli occhi degli altri, del voler essere visti e anche approvati, qualcuno che ci dica “sì, così vai bene”.

È giusto dire anche che, in quanto esseri umani, viviamo in funzione della conferma che l’altro ci da ma, come qualsiasi cosa portata all’estremo non è sana.

Quando i modelli di riferimento diventano "troppo"

Dal primo istante in cui veniamo al mondo ci specchiamo negli occhi di mamma e papà, coloro che, considerando la norma, si prenderanno cura di noi fino a che non raggiungeremo l’età adulta, momento in cui saremo in grado di prendere decisioni in autonomia senza dover richiedere loro il permesso e attendere il successivo consenso; che le figure di riferimento siano fondamentali per la crescita e lo sviluppo ce lo ribadiscono centinaia se non migliaia di libri e elaborati presenti il letteratura di cui vi ho ampiamente parlato anche negli articoli precedenti e che trovate sul blog.

È inevitabile che le figure genitoriali con cui cresciamo siano per noi dei modelli da cui prendere esempio per farci strada nel mondo; attraverso l’osservazione prima e l’imitazione poi, acquisiamo una serie infinita di comportamenti, modi di pensare e agire che ci permettono di cavarcela quando siamo da soli, perché così abbiamo imparato. Questo risulta sano e funzionale fino a quando si fa strada la necessità di dare voce alla propria identità e autonomia intesa in termini di comportamento e di pensiero per fronteggiare la vita al di fuori dell’ambiente domestico.

Non di rado mi è capitato di osservare figli (ormai giovani adulti e adulti) vivere in funzione dei modelli di riferimento di cui ho appena accennato; l’acquisizione dell’autonomia si raggiunge attraverso prove ed errori ma soprattutto quando mamma e papà lasciano ampio spazio di manovra ai figli di sperimentare e vivere ma rimangono comunque sullo sfondo, come una rete di salvataggio, in caso di necessità, senza però mai sostituirsi a loro.

E i modelli sociali?

Come ormai abbiamo imparato quando nominiamo i modelli di riferimento non ci limitiamo a pensare all’influenza delle figure genitoriali ma bensì anche a quella esercitata dai modelli sociali e culturali a cui siamo quotidianamente esposti.

Se ricordate, all’inizio dell’articolo, ho accennato al bisogno che abbiamo, in quanto esseri umani, di ricevere conferme dall’altro; ma cosa accade se l’altro non ci conferma ma continua ad essere per noi modello da imitare perché, ai nostri occhi, simbolo di perfezione?

Inserirei il bisogno del raggiungimento della perfezione all’interno della grande scatola dei bisogni dell’uomo ma, se portata all’eccesso, diventa patologica; come accade nei casi di Disturbi del Comportamento Alimentare si osserva, in chi ne soffre, un’estrema rigidità di pensiero e comportamento tale per cui qualsiasi cosa deve essere svolta rispondendo a precisi criteri che, ogni persona, si è prefissata. Questo viene a sua volta esteso anche all’aspetto fisico; il “voler essere (perfetti, ai loro occhi) come lei/lui” diventa patologico nell’istante in cui il modello sociale a cui si aspira è l’unico parametro di giudizio esistente, anche a discapito della salute fisica e mentale.

Infatti, ciò che si osserva è il non vedere altro se non quell’immagine alterata del corpo allo specchio, corpo che, quotidianamente viene spinto al limite e, verso il quale, si nutre così poco amore; sembra non essere mai sufficientemente magro e bello come (nella patologia) lo si desidera. 

È tutto un susseguirsi di “se bell* vuoi apparire, un po’ devi soffrire” come se la vita dovesse essere vissuta a suon di sacrificio e null’altro, come se la strada per raggiungere un obiettivo fosse solo disconnessa e fatta di grandi e fastidiosi ciottoli senza nemmeno un tratto spianato e facile da percorrere; è una gara a chi fa di più, a chi lavora di più, a chi sacrifica di più la propria vita, le relazioni e, a volte, la salute per mostrarsi agli altri e ricevere il loro ok.

 

…Nei prossimi articoli affronteremo più nel dettaglio questi argomenti, se vuoi approfondire ancora vai al nostro blog dove trovarai gli articoli delle nostre esperte dell’alimentazione sana. Seguici su Instagram o sul nostro ricettario online per avere tante ricette sane e gustose.

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